“Qui non si vendono più bambole” non è stata una semplice rappresentazione teatrale, ma un’esperienza intensa che ha messo in luce le somiglianze tra mafia e bullismo.
Attraverso la storia di Giovanni, un ragazzo che vive il peso dell’omertà nella sua scuola, gli attori ci hanno portato a riflettere su quanto il silenzio possa diventare complice dell’ ingiustizia e su come la paura sia uno strumento di potere per gli altri.
Uno degli aspetti più forti dello spettacolo è stato il confronto tra la prepotenza di un bullo e i metodi mafiosi. Tonio, il ragazzo che imponeva agli altri di dargli il denaro della paghetta, non era solo un semplice prevaricatore, ma rappresentava un sistema di intimidazione e violenza che, su scala più grande, è lo stesso che permette alla mafia di esistere. Tutti sapevano, tutti vedevano, ma nessuno parlava. Nemmeno Giovanni, che inizialmente trovava scuse per giustificare l’ingiustizia, proprio come spesso accade nella realtà.
Ma ciò che rende questo spettacolo ancora più potente è la storia del padre di Giovanni, che da giovane ha vissuto sulla propria pelle la paura della mafia. Gestiva un negozio di bambole e, come tante altre attività, era stato vittima del pizzo. Per un periodo aveva pagato per paura, fino al giorno in cui ha deciso di ribellarsi, pronunciando quella frase che dà il titolo allo spettacolo: “Qui non si vendono più bambole.” Un atto di coraggio che ha avuto conseguenze, ma che ha rappresentato la scelta giusta, quella di non piegarsi all’ingiustizia.
Un dettaglio molto significativo è la scelta del nome del protagonista. Giovanni è nato il 23 maggio 1992, il giorno della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone. Il padre racconta di come quel giorno fosse felice per la nascita del figlio, ma allo stesso tempo sconvolto per ciò che stava accadendo. Il ricordo più vivido è quello delle sirene delle ambulanze e della polizia che coprivano ogni altro suono: “Io ero tutto contento e cercavo di suonare il clacson per passare, ma tra le sirene… il mio clacson era silenzio.” Questa frase ci fa capire quanto la mafia sia riuscita a condizionare la vita delle persone, togliendo persino la possibilità di gioire per un evento così importante come la nascita di un figlio.
Tra le scene più dure e toccanti dello spettacolo c’è quella dedicata a Giuseppe Di Matteo, il bambino ucciso dalla mafia per punire suo padre, un collaboratore di giustizia. Il pensiero che sia stato sciolto nell’acido è qualcosa di inimmaginabile, una crudeltà che lascia senza parole e che ci fa riflettere su quanto la mafia non risparmi nemmeno gli innocenti.
Oltre ai contenuti, anche la messa in scena ha avuto un forte impatto. Le urla, i toni duri, le atmosfere cariche di tensione hanno reso ancora più evidente la brutalità della violenza e il senso di oppressione che si prova quando si è costretti a subire un’ingiustizia. Ci hanno fatto sentire quasi intrappolati in quella realtà, portandoci a domandarci cosa avremmo fatto noi al posto del protagonista.
Questo spettacolo non è solo un racconto di eventi, ma un invito a prendere posizione. Ci mostra che denunciare non significa essere una spia, ma fare la cosa giusta. Giovanni, alla fine, trova il coraggio di parlare e di denunciare il bullo, consapevole che la giustizia deve sempre avere la meglio sulla paura. È un messaggio forte, che ci spinge a riflettere su quanto sia importante non restare indifferenti di fronte a un’ingiustizia, piccola o grande che sia.
Perché solo dicendo “Qui non si vendono più bambole” si può davvero spezzare il ciclo del silenzio e della paura.
Sofia Iamele