Una mattina di tanto tanto tempo fa la grande figura di un animale si accascia a terra e muore su una spiaggia. Dopo un po’ la sua carcassa finisce dentro l’acqua del mare e vi rimarrà per tanto tempo.
Con la decomposizione, molto probabilmente, il suo ventre esplose a causa la pressione esercitata dai gas interni; la sua carne fu spolpata e lo scheletro rosicchiato da numerosi piccoli organismi marini che lo bioerosero, lasciando segni evidenti sulle sue ossa che verranno scoperte dopo un bel po’.
Con il trascorrere del Mesozoico, il mare si è ritratto da quella che una volta era una litoranea dal clima equatoriale, e ha portato sulla terraferma la zona che e oggi rappresenta la località di Saltrio, un piccolo comune lombardo.
Dopo quasi 200 mln di anni di attesa, per pura causalità, i suoi resti sono stati portati alla luce da Angelo Zanella, ricercatore di fossili a livello amatoriale e collaboratore del Museo di Storia Naturale di Milano, il 4 agosto 1996, durante una delle sue escursioni nella cava di Saltrio. Angelo portò il masso contenente le ossa nel suo giardino e pochi giorni dopo il rinvenimento arrivò a casa sua Giorgio Teruzzi, noto paleontologo milanese. Prima visita di quest’ultimo, Angelo, per curiosità, aveva provato ad aprire il masso con un grosso piccone, riuscendo a portare alla luce il primo osso: un omero. Quando Teruzzi lo vide, esclamò le seguenti parole: ’’Porco cane Zanella, è un dinosauro!’’. Tre anni dopo, nel 1999, diversi paleontologi del Museo di Storia Naturale di Milano, seguiti da Cristiano Dal Sasso, hanno proceduto estraendo tutti frammenti di osso presenti in quella benedetta roccia dolomitica. Date l’estrema durezza del calcare in cui erano inglobati i resti, Dal Sasso e i suoi hanno agito alternando la preparazione tradizionale del fossile con un trattamento chimico all’acido formico al 5% precedentemente saturato con trifosfato di calcio per renderlo più tenero. Il principale rischio di questa procedura era chiaramente rappresentato dalla fragilità delle ossa e della loro incompatibilità con l’acido. Ciò che è stato tirato fuori è stato successivamente trattato con della resina acrilica per rinforzarlo, irrobustirlo e renderlo meno friabile. Il fossile completo è rappresentato da 132 frammenti scheletrici in alcuni casi decisamente cavi, di natura chiaramente incompleta, che comprendono: 35 pezzi dalla regione degli arti anteriori, del cinto pettorale, della cassa toracica, di alcune falangi, della parte metacarpale e della caviglia; 29 pezzi attribuibili alla regione mandibolare, al cranio e alle coste, e 68 frammenti appartenenti a parti del corpo non determinabili. Da notare è che non sono stati individuate frammenti dei gastralia, ossa ventrali caratteristiche scollegate dal resto dello scheletro, e quindi si pensa che, mentre l’animale si decomponeva su pressione dei propri gas intestini, gli sia letteralmente esplosa la pancia disperdendo in mare i suoi organi (chiaramente quelli della regione ventrale) e i gastralia.
Cosa certa è che l’insieme di tutti questi indizi ci indicano che l’animale in questione era un grande dinosauro teropode. Il clade Theropoda, per intenderci, appartenente al gruppo di cui fanno parte specie di predatori arcinoti come Tyrannosaurus rex, Velociraptor mongoliensis, Spinosaurus aegyptiacuse gli uccelli che sono, contro ogni negazione, i dinosauri dei nostri giorni (ma questo è materiale per un altro articolo).
Mi piacerebbe aggiungere che ‘’dinosauro’’ e ‘’teropode’’ hanno una etimologia greca abbastanza evidente, infatti dinosauro viene dai due termini deinòs (ovvero terribile, spaventoso o meraviglioso) e sauròs (ovvero lucertola o rettile) che assieme significano letteralmente ‘’rettile meraviglioso’’, ‘’lucertola terribile’’ o ‘’lucertola prodigiosa’’; e teropode viene da terìon (ovvero bestia o animale) e pous-podòs (ovvero piede o zampa) e assieme significano ‘’piede da bestia’’ o ‘’zampa bestiale’’ in merito ai piedi artigliati di numerosi animali appartenenti a questo ramo.
Dal momento della scoperta e fino a non molti anni fa, questi ritrovamenti hanno dato vita alla specie non ufficiale e informale del ‘’Saltriosauro’’.
Nel 2018, dopo una ventina d’anni dalla scoperta, i paleontologi italiani Cristiano Dal Sasso, Andrea Cau e Simone Maganuco pubblicano un maestoso articolo di 80 pagine sulla rivista Peerj: nell’articolo viene finalmente attribuito il nome scientifico di Saltriovenator zanellai, la cui traduzione è ‘’cacciatore di Saltrio di Zanella’’. Saltriovenator era un ceratosauro (Ceratosauria) del Giurassico inferiore che, nello specifico, visse nel Sinemuriano circa 196 mln di anni fa; è stato il ceratosauroide più antico: probabilmente era lungo 7 metri e pesante all’incirca una tonnellata. Si capisce che era un ceratosauro dal suo arto anteriore destro parzialmente conservato, che, per l’appunto, condivide caratteristiche precise con i membri della famiglia Ceratosauria.
Saltriovenator è stato fondamentale per comprendere diversi aspetti della storia evolutiva degli uccelli: era dotato della forcula (osservabile, in basso a sinistra, nella prima foto dei frammenti scheletrici ritrovati), che è un ossicino biforcuto che serve a rinforzare il torace degli uccelli durante il volo. Saltriovenator era, quindi, il più antico portatore di una caratteristiche che, ancora oggi, dopo un lungo viaggio evolutivo, sono riscontrabili negli uccelli.
Inoltre, il suo arto destro, dotato di un omero voluminoso, dimostra che i dinosauri teropodi, che inizialmente erano dotati di 5 dita, hanno progressivamente perso il mignolo e l’anulare, acquisendo quindi una mano a tre dita con un modello 1-2-3, precursore dell’ala degli uccelli. In aggiunta, la regione dell’arto anteriore era attraversata da una fitta corda di tendini che garantiva un certo utilizzo degli avambracci nella predazione.
Giovanni Deperte