La scorsa settimana, a conclusione di un percorso di conoscenza sul fenomeno della mafia, abbiamo letto in classe un brano tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia “Il giorno della civetta” e assistito nell’auditorium della scuola alla rappresentazione teatrale “Qui non si vendono più bambole”, messa in scena dalla compagnia OltrePalco. Sia il testo narrativo che quello teatrale – ed il libro di L. Garlando “Per questo mi chiamo Giovanni” a cui il testo teatrale è ispirato – trattano di mafia, ma da due punti di vista diversi.
Del brano di Sciascia, che riporta la famosa scena dell’interrogatorio del boss Don Mariano Arena, ci ha colpito molto la lucidità con cui il comandante Bellodi denuncia la triste verità di un mondo che, prima di questo percorso formativo a scuola, ci era quasi totalmente sconosciuto. Di questo mondo fa parte appunto Don Mariano, il classico mafioso, spavaldo, presuntuoso, malvagio, senza scrupoli, corrotto, sicuro di sé, ma soprattutto con un notevole e opinabile senso dell’ “onore”. Egli è così arrogante da sentirsi in diritto di decidere della vita o della morte di quelli che lui considera “quaquaraquà” e quindi non degni di vivere. Dall’altra parte, c’è il capitano Bellodi, con un grande senso del dovere, del rispetto altrui e di quello che dovrebbe essere il bene comune per una società migliore. Siamo rimasti basiti di fronte alla potenza insita nel principio mafioso dell’omertà, ma anche alle espressioni di crudeltà e malvagità della mafia stessa. L’omertà, che consiste nel silenzio davanti ad azioni illegali e reati di ogni sorta che andrebbero invece denunciati, è propria di quelle persone che potrebbero essere testimoni utili alle indagini e invece o non parlano oppure forniscono informazioni sbagliate per depistarle.
Molto forte anche l’immagine della mafia che è venuta fuori durante la rappresentazione teatrale. Si parte, esattamente come nel libro di Garlando, da un episodio che vede protagonista un bambino che vive una situazione particolare a scuola e si parla ancora di mafia, ma con il “filtro”: il pretesto offerto da una storia di bullismo tra ragazzi. Il parallelismo ci ha fatto riflettere, ma la scena che ci ha colpito di più è quella in cui uno dei protagonisti ricorda la storia di Giuseppe Di Matteo, rapito quando aveva 12 anni, tenuto in una stanza nascosta sotto il pavimento di un bunker nella campagna palermitana, strangolato e sciolto nell’acido 25 mesi dopo il sequestro. La sua unica colpa? Era il figlio di un pentito mafioso.
Durante lo spettacolo la mente è corsa sulle pagine lette di Sciascia e abbiamo provato forti emozioni. Pensando a Giuseppe, ce lo siamo visti davanti che chiedeva disperatamente aiuto, abbiamo immaginato le cose che avrebbe potuto fare, i sogni che avrebbe potuto realizzare! Chissà, magari sarebbe potuto diventare un campione di equitazione, dato che gli piacevano tanto i cavalli. Allo stesso tempo ci siamo chiesti cosa succederebbe se uomini come Don Mariano avessero la possibilità di conoscere l’altra ‘verità’, quella della giustizia e della legalità. Chissà se, messi nelle condizioni di poter scegliere, opterebbero lo stesso per la via della illegalità piuttosto che per quella della giustizia.
Matilde Di Gioia e Luca Froio