Giovedì 23 febbraio alcune classi seconde della Zingarelli nell’auditorium della scuola hanno potuto visionare lo spettacolo teatrale “Qui non si vendono più bambole”, ispirato al libro Per questo mi chiamo Giovanni di Luigi Garlando. Lo spettacolo è stato messo in scena dall’Accademia di recitazione “Oltrepalco” con la regia della maestra Rossella Amoruso. Questa rappresentazione racconta due mondi apparentemente lontani, che invece hanno un confine sottilissimo e tanti punti in comune: la mafia e il bullismo. Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare un’ex alunna della sezione C della Zingarelli che, lo scorso anno, ha partecipato a questa rappresentazione teatrale, in qualità di attrice.
- Quali emozioni hai provato?
Prima dello spettacolo, come tutti i miei compagni, provavo molta ansia. Avevo paura che qualcosa non andasse secondo i piani. Appena lo spettacolo è iniziato, tutti ci siamo tranquillizzati, perché il pubblico si accorge se gli attori sono ansiosi o meno. La difficoltà maggiore nella recitazione è entrare nella parte e provare le vere emozioni del personaggio che si sta interpretando.
- Ci sono state delle azioni sceniche che non ci sono state chiare, per esempio quelle con i lacci.
Sì, capisco. Ogni spettacolo ha un oggetto retorico, questo secondo la scuola di Bertolt Brecht. Ed in effetti io e i miei compagni abbiamo unito un laccio di una scarpa con quello di un’altra a simboleggiare il bambino bullizzato perché si era rifiutato di dare le sue figurine al bullo. Se consideri che il bullo raffigura la mafia e il bambino tutte le vittime indifese, la catena dei lacci è anche metafora del modo in cui agisce questa organizzazione criminale. Quando invece in un’altra scena sleghiamo i lacci fra loro e li disponiamo per terra è per dare l’idea del carcere di massima sicurezza. Successivamente uno di noi raccoglie tutti i lacci, li arrotola e li mette sul lato destro del palco: questo gesto raffigura l’isola dove Falcone e la sua famiglia furono mandati sotto scorta, quando erano minacciati dalla mafia.
- E gli “spasmi” nella scena in cui nessuno si parla? Cosa significano?
Una scelta molto forte, sì: rappresentano lo scioglimento del bambino nell’acido.
- Rispetto al testo narrativo manca il riferimento al carciofo come metafora della mafia. Se avessi potuto scegliere, l’avreste recuperata nella versione teatrale?
No, non l’avrei messa perché ce ne sono altri più rappresentativi sulla scena.
- Qual è la scena che ti ha emozionato di più?
Quando tutti gli attori ripongono le scarpe una sull’altra in un punto preciso al lato del palco. Dopo che tutti avevano messo a posto le scarpe e fatto una fila sul lato, io mi trovavo al centro del palco e dovevo recitare la parte più lunga del mio copione. Sentivo gli occhi del pubblico puntati su di me.
- Valeria, quali sono i motivi che spingono un adolescente a fare recitazione?
Sono molteplici: io ho iniziato perché sognavo di fare l’attrice delle serie tv o dei film, perché quando ero più piccola seguivo molto degli influencers che facevano questo lavoro. Ma in realtà, al di là delle aspirazioni personali, credo che tutti dovrebbero iscriversi ad un corso di teatro per imparare a gestire le proprie emozioni e soprattutto la timidezza. Ed infatti, il teatro mi ha aiutata ad aprirmi, a relazionarmi meglio con gli altri, in generale ad essere più estroversa.
Intervistare Valeria ci ha aiutato a comprendere ancor meglio i significati profondi del messaggio di Garlando ma anche a percepire e a conoscere più da vicino alcuni aspetti, sentimenti e stati d’animo dell’essere attore. E anche questo fa parte della MAGIA del teatro.
Giosuè Bennardo – Claudia Rutigiani